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Mauro Scremin [14/07/2009]
"In ogni caso è stato un uomo di fegato" esclama Tex, impressionato dalla tragica fine del Leopardo Nero. Ed effettivamente il progetto del Grande Re era qualcosa di veramente ardito: creare nientemeno che gli Stati Uniti dei Popoli Rossi mettendosi alla testa di un’insurrezione generale delle nazioni indiane, una “sacra guerra di liberazione” che doveva cacciare l’uomo bianco da tutti i territori tra il fiume Colorado e le grandi foreste.
Per il nostro ranger la situazione è esplosiva. Dalle regioni dell’alto Missouri tra Dakota e Montana, lì dove riecheggeranno le storiche imprese di Toro Seduto e Cavallo Pazzo, alle terre del grande alce gli emissari del Leopardo Nero vanno di villaggio in villaggio incitando i giovani guerrieri alla rivolta. Una spaventosa guerra indiana è alle porte. L’odio delle cosiddette razze inferiori per la civiltà dei bianchi, che con la sua violenza e le sue sopraffazioni stava portando le nazioni indiane al declino, trova nel Grande Re un incredibile interprete.
“Eggomi badrone!”. Louis Laplace è un “negro” ma è diverso rispetto ai suoi simili, diverso dai personaggi quasi caricaturali, anche nella ridicola parlata, che si incontrano qua e là nelle prime storie: negri ottusi e superstiziosi come Tom, il pavido servo degli Stanfield che nel trovarsi di fronte a un Tex che tutti credevano morto corre a nascondersi sotto il letto; o negre corpulente che ricordano tanto l’indimenticata Mamie di “Via col vento”, come Rosa, la saggia serva di Dory Bess (“L’eroe del Messico”), o come la splendida Mamie (curiosa omonimia…), tenera e protettiva domestica della sventurata Annie Sterling (“La gola segreta”); e ancora individui infidi e pericolosi come il cameriere di Osborne, fulminato da una pallottola di Tex (“La fine di Lupo Bianco”), o poveri perseguitati, vittime della violenza e dell’ingiustizia, come Tom Bayon che il nostro eroe salva dal linciaggio (“Il ponte tragico”).
Invece Louis Laplace è diverso e ha un progetto grandioso: lui, un negro della Louisiana, aveva deciso di fare la rivoluzione, punto e basta. "Eripuit caelo fulmen sceptrumque tyrannis". Nella sua lucida follia sembrano riecheggiare le parole scolpite sul monumento di Beniamino Franklin: "Hanno oppresso la mia razza per secoli, ma ora io, Louis Laplace, leverò la mia mano alta nel cielo e toglierò di mano agli dei le loro folgori per scagliarle sugli oppressori". E non gli mancavano certo le risorse: era addirittura venuto in possesso, non si sa come, del favoloso tesoro del pirata Lafitte, che molti cercavano invano negli isolotti della baia di New Orleans. Ma essere ricco non gli bastava, roso com’era da un feroce desiderio di riscatto e di rivalsa verso una nazione che, appena uscita dalla guerra civile, aveva lasciato aperte dolorose ferite nei territori dell’ex Confederazione. "Anche se ricco a milioni, laggiù un negro è sempre un negro – ammette – mentre qui, fra questi indiani quasi primitivi, il colore della mia pelle non ha importanza".
Ma i nuovi dei ai quali si rivolge gli volteranno le spalle. Il suo consigliere, il sinistro Pierre Gaul, lo induce a commettere il gesto sacrilego di trafugare il misterioso Occhio di Manito, il sacro totem dei Mohicani, e di gettarlo in un laghetto: un atto dalla tremenda carica simbolica, la rottura di un equilibrio che doveva dare il segnale dell’insurrezione, ma che invece sarà per lui l’inizio di un rapido quanto drammatico declino. Tanto irresistibile fu la sua ascesa quanto rovinosa la sua caduta.
E mentre Kit Willer, degno figlio di tanto padre, si dà allo spionaggio in quel di Winnipeg in una missione che ne mette in luce le formidabili capacità, Tex il pacificatore dovrà ricorrere alla sua “magia” per recuperare la mistica sfera dalle vermiglie acque del lago e rimetterla al suo posto facendosi in tal modo strumento della volontà del Grande Spirito. Per questo, incurante del pericolo, non esiterà a gettarsi nel lago le cui acque si sono tinte del colore del sangue e dove i pesci sono morti avvelenati: "C’è un solo pericolo che temo – confessa allo stregone Onothami – quello di non riuscire a vedere dove sia affondato il totem. Il resto non mi preoccupa". La sua magia è più forte di quella del Grande Re. Egli non ha di che temere: egli è in armonia col Grande Spirito.
Il lago scarlatto... un giorno di aprile del lontano 1965... un bambino e il suo stupore...
("Il grande re", "Il lago scarlatto" e "Tradimento", nn. 53-55)