Sei in: Home page > Documentazione > Intervista a Gianluigi Bonelli
Francesco Bosco [01/06/2017]
a cura di Mauro Marcheselli, Franco Spiritelli
La prima cosa che le chiediamo è come ha cominciato e perché.
Ho cominciato a scrivere a diciotto anni, per puro caso. Vede, la gente non può sempre scegliersi il mestiere giusto. Anzi, in genere non accade. Ma ci sono anche i fortunati e io sono tra quelli. Sono nato con un mestiere addosso, quello dello scrittore di fumetti, e con l’aiuto della fortuna è stato proprio quello che ho fatto, per tutta la vita.
Comunque lei non aveva altra gente in famiglia che faceva già quel mestiere? Lei è il capostipite?
Sì, io sono il capostipite. Anche perché non esistevano fumettari ai tempi di mio padre e mio nonno!
Come mai questo mestiere invece che un altro?
Glielo dico subito: perché all’inizio io scrivevo romanzi, ma questi non mi rendevano una lira.
Che romanzi ha scritto?
Dunque, I fratelli del silenzio, L’ultimo corsaro, Il crociato nero. Poi una pila di novelle che non finiva più.
Questi chi li stampava allora?
I primi due li ha stampati la Sadel di Milano, Il crociato nero, invece, l’Azione Cattolica di Roma.
L’Azione Cattolica?
Sì, mi pescarono che ero da Mondadori, mi chiamarono e mi dissero: “Lei è un bravo ragazzo...”, al che io risposi: “Guardi, reverendo, bravo ragazzo finché vuole, ma io voglio il grano perché lavoro da Mondadori e lá mi pagano bene”. Così andò a finire che mi fecero un contratto di due anni per Il Vittorioso, e io glielo tirai su dalle diciottomila copie che vendeva a centoventimila in due anni. Dopodiché senza neanche avvertirmi, alla scadenza non mi rinnovarono il contratto.
Ci sarà stato qualche motivo...
Il motivo è che ormai gli avevo insegnato tutto quello che c’era da sapere: come si scrive, chi deve disegnare, come cedere i diritti d’autore all’estero. Così sono andati avanti da soli.
Si ricorda il primo fumetto che ha fatto?
Uno dei primi fu Artagov, un racconto in cui l’eroe scopriva il fuoco e trascinava i suoi compagni verso le forme primordiali della civiltà.
Lei per arrivare a scrivere ha fatto degli studi?
Soltanto il Ginnasio.
Per quei tempi era già molto.
In effetti, allora il ginnasio era una cosa seria. Ricordo che mi tiravano il collo e mi facevano sgobbare... Non continuai gli studi perché morì mio padre. Eravamo in tempo di guerra e mi trovai in una situazione difficile. Così rimboccai le maniche e cercai la mia strada.
Lei ha scritto anche poesie, come si inseriscono nella sua produzione letteraria?
Le poesie sono un’altra cosa, rappresentano i più intimi sentimenti di una persona in un determinato momento della sua vita. Se lei è contento difficilmente comporrà poesie: generalmente si scrivono quando si è molto tristi, e quando si pensa a qualcuno che si ama o che si è amato.
Torniamo a come ha cominciato...
Dunque, avevo appena terminato L’ultimo corsaro e andavo in giro cercando di appiopparlo a qualche editore. Dopo aver consumato inutilmente le suole di molte scarpe incontrai un conoscente, un certo Pesavento, che lavorava da Vecchi, l’ed. dell’Audace. Pesavento mi chiese: “Tu sei capace di scrivere? C’è il mio editore che cerca qualcuno che scriva dei racconti”. Non ebbi un attimo di esitazione: “L’ha trovato!” gli risposi. Andai da Vecchi e gli consegnai il romanzo. Lo lesse e la mattina dopo mi telefonarono di recarmi subito in viale Stelvio. C’era un posto per me! Presi il ètramvai, andai là e venni subito assunto come direttore con l’accordo di scrivere, di sceneggiare, di mandare avanti cinque o sei giornali contemporaneamente.
Così di punto in bianco?
Di punto in bianco. E fu allora che compresi la differenza tra il fumetto e il romanzo... il romanzo non rende niente.
Come era in quel periodo la situazione del fumetto in Italia?
Erano i tempi eroici dei pionieri. Nelle edicole si trovavano L’Intrepido, l’Audace, Jumbo, Rintintin, l’Avventuroso di Nerbini, Il Corriere dei Piccoli. Ricordo anche Lo Scolaro, un giornalino per bambini. Il più importante di tutti era l’Avventuroso, di grande formato, tutto composto di fumetti americani. Allora i collaboratori italiani erano pochissimi, e io, con tanti giornali per le mani, mi trovavo in difficoltà. Così dissi a Vecchi: “Perché non li facciamo noi i fumetti, invece di comprarli all’estero?” Da quella mi proposta prese avvio, in grande stile, la produzione italiana.
Lì ha cominciato subito a fare sceneggiature?
Subito. E mi trovai a mio agio: capii di aver infilato la strada giusta.
Non ha avuto qualcuno che le ha insegnato il mestiere?
Non è un mestiere che si possa imparare. Si può affinare, questo sì. Ma quello di scrivere è un dono di natura. O lo si possiede oppure buonanotte al secchio.
Ci racconta i motivi per cui si è messo per conto proprio?
Un po’ per ambizione, un po’ per una questione di carattere. Non voglio piedi sul collo e preferisco rischiare da solo. E se vedo una mela sull’albero, invece di restare a guardarla, la colgo.
Lei è ancora editore?
No, ma lo è mio figlio Sergio. Io ho una percentuale ma non mi interesso più di quello che può essere la stampa o la carta o di tutti gli altri problemi. Io scrivo il Tex e basta.
Tornando a Vecchi, lei a quel punto comprò l’Audace...
No, lo prese Mondadori e assunse me come direttore. Poi me ne andai per tener fede al mio ruolo di individualista. Io entravo e uscivo dal lavoro quando volevo, naturalmente entro i limiti accettabili, mentre loro, i mondadoriani, sostenevano che poiché ero il direttore dovevo dare il buon esempio. E me lo dissero proprio quando mi era venuta la voglia di bere un caffè, diedi le dimissioni a andai al bar. Via di lì andai al Vittorioso, sempre come direttore, ci restai per due anni...
Che periodo era?
La vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Comunque decisi di mettermi in proprio: racimolai quattro lire, mi coprii di debiti e comperai il giornale. Mi ricordo che lo pagai in dannatissime cambiali, che pagai regolarmente. Ma erano tante...
Allora è partito dal niente...
Dal niente.
Lei ha comperato l’Audace in un periodo che l’Audace non andava per niente.
Non era mai andato in vita sua.
Come lo ha portato su?
Mi sono detto: ormai il pubblico mi conosce, io conosco il pubblico. Gli scrivo una bella storia con cazzottate a volontà e scommetto che mi seguirà. E mi ha seguito.
C’erano delle serie con personaggi famosi?
Uno per tutti: Furio Almirante, l’uomo dal pugno d’acciaio, disegnato dal grande Carlo Cossio.
Poi l’Audace divenne l’Araldo. Come mai?
E’ una storia che va fatta risalire allo scoppio della guerra. Fu un periodo difficile per un editore come me che non aveva santi in paradiso. Per qualche tempo riuscii a tirare avanti. Poi, quando la situazione del paese si aggravò, fui costretto a chiudere bottega. Coinvolto nella guerra partigiana, decisi di cambiare aria e di cercar rifugio oltre frontiera, in Svizzera. Quando tornai in Italia, a guerra finita, mi separai da mia moglie Tea e le lasciai il giornale, anche se continuai a darle una mano per mandarlo avanti.
Lei diresse l’Audace per un sacco di tempo...
No, tutt’altro.
L’Audace cambiò nome quasi subito. Perché?
Le confesso che non me lo sono mai chiesto. Probabilmente, il cambio di testata fu dovuto a ragioni burocratiche e amministrative che mi sfuggono oggi come mi sfuggivano allora.
Ho letto su un libro che parla del fumetto italiano che al tempo del fascismo i giornali erano tutti allineati alle disposizioni del regime. Tutti, tranne lei e Lavezzolo che, non mi ricordo se era sul Vittorioso, avete fatto una specie di azione di fronda.
Non esageriamo. Sul Vittorioso non svolgevo azioni di fronda: badavo soltanto a mettere insieme un settimanale che piacesse ai lettori. E’ vero, peraltro, che ho sempre cercato di evitare gli incensamenti littori e le cortigianerie.
Adesso la inchiodiamo alle sue responsabilitá. Milioni di appassionati del Tex, per nostra bocca, hanno tante domande da farle.
Sun chi. (trad. dal milanese maccheronico: “Sono qui”)
E’ stanco di fare il Tex?
Sono stanco sì. Andrò avanti a scrivere ancora per un anno o due, dopodiché, ho già avvertito mio figlio, basta. Basta ragazzi, per piasée! La mia vita è attaccata alla macchina da scrivere per continuare a sfornare delle storie, e a settantaquattro anni non è che se ne abbia sempre voglia. A proposito, se le interessa, adesso sto scrivendo un episodio che disegna Vincenzo Monti...
Monti? E’ il primo Tex che fa?
Ha già messo le mani in qualche albo, per aiutare i suoi colleghi.
Non sarà quel disegnatore che ha finito l’episodio iniziato da Nicolò poco tempo fa?
No, quello era Francesco Gamba. Comunque non mi chieda altro sulla produzione perché io mi disinteresso della casa editrice. Quasi non so nemmeno che cosa esce. Il figlio mi manda tre o quattro albi di quelli che escono in edicola, ma io l’unica cosa che faccio è di metterli negli scaffali della mia libreria, insieme agli altri.
Non ci dica così....
Ma cosa devo fare? A volte non li rileggo neppure, sennò mi sorgono mille dubbi. Spesso mi verrebbe voglia di dire: “Sergio, per favore, l’ultima pagina non mi piace, rifacciamola”. Ma so che è impossibile e so anche che quando la sceneggiatura è uscita dalle mie mani non la rivedrò più.
Quanto c’è di lei in Tex Willer?
Il carattere, il senso anarchico delle cose, l’istinto di disobbedire alle autorità.
Non pensa che Tex ha il successo che ha perché fa quello che vorrebbe fare tanta gente che non ha il coraggio di farlo?
Ne sono arciconvinto. Più che la trama delle storie è il modo di comportarsi di Tex che colpisce la fantasia dei miei lettori. Il senso della giustizia e della rivolta contro l’arroganza è istintivo in Tex: ecco perché picchia tanto sovente.
Lei si è picchiato molte volte?
Ho ancora il naso rotto. A Parigi, facendo il mestiere del pugile, guadagnavo quaranta franchi al giorno.
Io intendevo picchiare per strada.
No, no. L’unico scontro che ho avuto per la strada risale a qualche secolo fa, lungo le sponde dell’Olona, un canale di Milano che oggi è stato coperto.
Voi avete fatto il Tex così, quasi per caso. Il Galleppini dice che lui lo disegnava praticamente con la mano sinistra, quando era libero da altri impegni. Quando vi siete accorti che era una cosa che andava?
Bisogna fare un po’ di storia. Galep intendeva dire che a quei tempi era impegnato a disegnare Occhio Cupo, un personaggio nel quale la casa editrice credeva molto. Contemporaneamente dava alla luce Tex, sui soggetti e le sceneggiature che io gli fornivo. Ma Tex, appunto, lo disegnava nelle ore sottratte al sonno. In seguito, Tex si rivelò il cavallo vincente e Galep passò il pennello dalla mano sinistra alla destra.
Qualcuno dice che il Tex è verboso, che è troppo il parlato...
Non è che parli molto. Parla quanto parliamo io e lei, quanto parlano tutti.
Lei non lo trova un po’ lento? Alterna a cazzottate furiose altri momenti, magari al tavolo del saloon, dove va avanti a parlare per dieci tavole.
Non può mica andare in giro cazzottando dalla mattina alla sera! Guardi, quando il personaggio è fermo io me ne accorgo e taglio la scena, sposto l’azione da dove si trova il Tex a dove si trova l’avversario. Io dico che se il pubblico dopo tanti e tanti anni continua a leggerlo (il calo che ha avuto negli ultimi tempi è roba da ridere se paragonato a quello di altri personaggi del fumeto) significa che ci trova qualcosa, forse qualcosa di più importante di quello che io stesso posso pensare.
Però è vero che nei primi tempi il Tex era tutto un colpo di scena: più veloce ecc. Ecc. Adesso invece...
Ammetto che qualcosa è cambiato. Ma è un processo naturale. La tiratura di Tex dimostra che il personaggio ha saputo rinnovarsi. Un tempo il ritmo era più rapido? Può darsi. Io penso però che anche oggi i “tempi” tecnici delle sequenze delle azioni siano ben calibrati.
Quanto influisce il disegnatore sulle vendite?
Secondo me poco. Basta che sia un buon professionista.
Dicono che il taglio di Fusco sia quello che piace meno....
Non so. Come le ho detto, non dispongo, per mia scelta, di dati precisi sulla produzione. Posso tuttavia supporre che un illustratore dalla personalità così forte e insolita come Fusco crei qualche perplessità nel lettore di Tex.
Perché Fusco fa le facce diverse oppure...
Non lo so. Posso dire soltanto che Fusco è un artista e che io lo apprezzo molto.
A proposito di Fernando Fusco, per i tre episodi disegnati da lui, Caccia all’uomo, Mingo il ribelle e Il giudice Maddox, si dice che i testi non siano suoi, è vero?
Sì, sì, li ha fatti Sergio, mio figlio. Io poi gli ho corretto i dialoghi. Che cosa volete... ogni tanto, quando non ce la faccio più, lui scrive qualche racconto. Ma sa che il suo modo di parlare i personaggi è differente (il modo di parlare, non l’azione) e così mi manda i testi da rivedere e io glieli cambio quasi completamente.
Come mai non li ha fatti lei?
Ma perchè non ho il tempo!
Mi sembra che quasi tutti quelli che non ha scritto lei li ha disegnati Fusco, sbaglio?
Sbaglia. Io ho scritto dei testi per Fusco (basta ricordare L’idolo di smeradlo e l’avventure recente della setta satanica, Il marchio di Satana), così come mio figlio Sergio ha scritto per Ticci, Letteri, Nicolò e lo stesso Galleppini (El Muerto e Cruzado). Comunque, la collaborazione fra me e Sergio ha dato spesso buoni frutti.
Anche nei Ribelli del Canada?
Quello è una vaccata di racconto.
Abbiamo notato che in quei racconti c’è la stessa struttura narrativa del Zagor...
Se n’è accorta altra gente. E pensare che quando Sergio ha cominciato a scrivere Zagor, dopo due o tre numeri mi aveva chiesto di continuarlo io. Gli ho scritto due o tre episodi di Zagor completi, dopodiché gli ho detto che non potevo fare l’uno e l’altro fumetto, così ha continuato lui. Ma le cose che scrive non le condivido tanto.
Ma lui si rivolge ad un pubblico più giovane.
Sì, ma dice lo stesso cose un po’ sconclusionate.
C’è uno scrittore a cui affiderebbe Tex?
No, assolutamente. Oppure... forse Grecchi... L’ho incontrato mesi fa a Nizza, dove lui abita, e stavo per proporglielo. Ma lui ha cominciato a lamentarsi che era vecchio e stanco, e così ho lasciato perdere. Ecco, Grecchi ha uno stile molto simile al mio. E’ bravo ed è anche intelligente.
Un ragazzo? Non ci pare.
Ha sessant’anni circa e per me che ne ho settantaquattro è un ragazzino. C’è da dire una cosa riguardo a Grecchi: lui è abituato a tessere le sue trame sulla distanza delle tredici tavole e penso che avrebbe seri problemi a lavorare sulle centinaia di pagine di un episodio di Tex. Come, del resto, è accaduto anche a me un po’ al contrario: i peggiori racconti da me scritti sono, in piena coscienza, il Tex 100 e il Tex 200, perché dovevo fare la storia completa, dato che erano a colori. Non si possono fare i romanzi su misura.
Visto che lei non si interessa del controllo del Tex, chi lo fa?
Mio figlio o Decio Canzio, che oltre a essere il direttore è anche molto bravo.
Lo abbiamo chiesto perché tempo fa c’è stato un tradimento. Nicolò ha fatto Pat Mc Ryan alto come Tex. Identico spataccato.
No, Pat è molto più alto, più di un metro e novanta.
Ce lo siamo legati al dito questo tradimento. Non c’è un disegnatore che le piacerebbe facesse il Tex? I disegnatori di Tex (non tutti) fanno cazzate tremende sulla documentazione...
Questa è un’affermazione di cui lascio a lei ogni responsabilità. E poi gli autori di Tex devono lavorare velocemente...
La velocità non conta, non penso che uno sia più veloce perché infila nelle tavole tepee o totem a casaccio.
Cos’è? Una critica al sottoscritto? In tal caso caro amico, sappia che io i totem non li infilo affatto a casaccio. So benissimo che, nella realtà storica, si trovavano quasi esclusivamente nel Nord-ovest, sulle coste del Pacifico. Ma sono belli da vedere e fanno molto colore, così li faccio mettere. Tex non è l’enciclopedia Treccani: non se lo dimentichi mai.
Il Tex è anche quello che è per la fantasia che c’è dentro, che c’era soprattutto...
Fulmini! Io a questo gli tiro una revolverata...
Non sarebbe meglio liberare il Tex da queste pastoie realistiche che gli stanno strette? Tra l’altro gli indiani sono ormai tutti in riserva, lui non può più fare una bella battaglia, come faceva un tempo, quando arrivava in testa a tutti i Navajos. Adesso al massimo può fare uno sconfinamento da una riserva.
Ma io non mi creo problemi di questo genere! Io leggo molto, ho letto molto sulla storia del west, se trovo qualche spunto ne approfitto, lo sviluppo. A me interessa il fatto, non faccio lo storiografo. Il Tex non è un trattato di storia, bensì un libero adattamento di fatti accaduti che il protagonista vive e risolve alla sua maniera.
Per Vendetta indiana s’è rifatto al massacro di Sand Creek?
Sì, l’ho messo dentro pari pari: ho solo cambiato i nomi. Chivington, per esempio, l’ho chiamato Arlington.
Chi erano per lei gli indiani?
Dei poveri cristi.
Destinati alla distruzione, come poi è avvenuto?
Non è questione di predestinazione. E’ che da sempre, da quando i primi uomini hanno cominciato a usare le pietre come utensili, le civiltà tecnologicamente superiori hanno sopraffatto quelle più primitive. E’ una legge della storia. E in Tex mi sembra che non ci sia mai un velleitaristico pietismo nei confronti degli indiani, proprio perché è sempre presente la consapevolezza di questo gap fra due mondi tanto distanti.
Quando ha affiancato Kit Carson a Tex sapeva che nella realtà era stato un massacratore di Navajos?
Definire Carson un “massacratore” mi pare una forzatura. Comunque sapevo dei suoi trascorsi, ma mi piaceva la figura, e poi era un nome già conosciuto.
Ormai è diventato solo la spalla comica del Tex.
Sono le spalle che fanno grandi gli uomini.
A proposito di uomini, ma il Tex ci va o no con le donne o è una mammoletta?
Non è una “mammoletta”. Che Tex vada con le donne è una cosa naturale, che fa parte della vita di tutti, e non credo ci sia bisogno di farla vedere, così come non occorre mostrarlo anche quando fa i suoi bisogni corporali. Diciamo che è una specie di pudore dettato però dal buonsenso e dall’esigenza di non annoiare il lettore con il verismo delle “piccole cose” quotidiane.
Sì, ci sembra giusto, però una volta lei ci metteva più personaggi femminili, e tra l’altro i suoi personaggi femminili sono tutti cattivi.
Nella meccanica del western le donne hanno un ruolo secondario. Nel copione del film che ho preparato, per esempio, non ho messo neanche una ragazza. Non avrei saputo cosa farle fare...
Bè... poteva mettere un tipo come Calamity Jane.
Chi, quella bruttona?
Più che altro come personaggio femminile, dopotutto queste donne in fondo l’hanno fatta la storia del West.
E chi lo nega? Tuttavia il ruolo pur determinante della donna nell’epopea del West è stato oscuro, umile e, soprattutto, abbastanza estraneo a quei “momenti” avventurosi che io inserisco nel Tex e che i lettori si aspettano da me.
Si farà il film su Tex?
Sono anni che viene gente per farlo ma purtroppo io e loro non vediamo il personaggio allo stesso modo. Addirittura c è il regista Tonino Valerii che mi ha mandato un copione scritto da lui. Io l’ho letto due volte, ma poi ho declinato l’offerta.
Per lei qual è la faccia del Tex?
Quella di John Wayne.
Lo sa che il linguaggio del Tex è diventato molto più spregiudicato? Ha cominciato a parlare come parlavano i suoi rivali nei vecchi tempi. Non è ora di moralizzarlo un po’?
Davvero? Bè, io non me ne sono accorto. Fin dall’inizio ho voluto usare nel Tex un linguaggio duro, violento, a volte amaro. Del resto tale linguaggio accompagna sequenze esse stesse violente: questo era il mondo del west. Quello che ho sempre cercato di evitare è la volgarità, la brutalità gratuita, il sadismo. E le parolacce. Se poi me ne scappa una, perdonatemi, gente!
Se molla il Tex cosa fa, crea un altro personaggio?
No! Per piacere! Ma lei sa quanti quintali di carta ho scritto? Dal tempo di Vecchi, ancora prima. Da quando scrivevo poesiole per il Corriere dei Piccoli!
Cos’è il fumetto per lei?
Un mezzo di espressione, come molti altri. C’è chi lo usa con intelligenza e c’è chi sbaglia tutto e fa delle grandi castronerie. E poi c’è anche chi lo utilizza subdolamente soltanto per far soldi, vedi i pornofumetti. Io il fumetto lo rispetto: è stato la mia vita.
Tornando al Tex, non trova che i personaggi comprimari di Tex abbiano poco spessore psicologico? Non sarebbe meglio ogni tanto, non dico ridimensionarlo, ma almeno dargli degli avversari più degni del suo peso? Perché ultimamente Tex è troppo sicuro di sé, e poi non soffre mai.
E’ l’esperienza che lo rende tanto sicuro di sé. E poi oramai è vecchio, ne ha passate di tutti i colori.
Ma i lettori no...
Lo so, il lettore è sempre giovane.
Lei non usa la tecnica americana di riproporre certe situazioni, in certi intervalli di tempo?
No, direi di no.
Tex morirà?
Non credo, ormai mi è scappato di mano. Credo che arriverà un altro scrittore: io cercherò di fare da supervisore. Creperò prima io del Tex.
Trasportiamo Tex ai giorni nostri, cosa diventerebbe?
Un Pannella che fa a cazzotti.
Non c’ è un personaggio, tra quelli che ha fatto, che le piace di più?
Yorga, quello che ho fatto con Canale.
Lei conosceva Lavezzolo?
Sì, era un bravo ragazzo, non meritava di fare la fine che ha fatto. Meritava di invecchiare bene, senza acciacchi, tranquillamente... Purtroppo non è stato così.
Bè... noi abbiamo finito, la ringraziamo per la sua gentilezza e disponibilità, sapendo che è così gentile chissà quanti d’ora in poi verrano a trovarla...
Ah, no. Per voi ho fatto un’eccezione, amigos, da anni non rilasciavo un’intervista. Ma basta così e per il futuro prometto solennemente che prenderò a fucilate tutti quelli che mi verranno a intervistare. Cuntent?
In confidenza, è tutto vero quello che ci ha detto?
Certo! Io non racconto mai balle, le racconto già sul Tex.